di Velia Iacovino
Sangue sulla Primavera nigeriana. Come documentano i video postati a decine e decine su Instagram e altri social, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco contro i manifestanti, scesi nelle strade delle principali città del paese per invocare riforme e soprattutto sollecitare lo scioglimento della Sars, inquietante sigla che dal 1984 identifica le squadre speciali antirapina della polizia che in questi mesi di emergenza da Covid si sono macchiati di ulteriori gravissimi abusi, con la complicità delle bande criminali, che seminano da sempre terrore in ampie aree del paese. Una richiesta, quest’ultima, solo apparentemente accolta dal presidente Muhammadu Buhari, che, finito sotto i riflettori del mondo, il 15 ottobre si è affrettato ad annunciare formalmente la dissoluzione della famigerata unità, di fatto lasciando campo libero alle milizie, che hanno infiltrato elementi violenti tra i dimostranti, facendo precipitare nel caos il paese, mentre cresce il timore che i disordini possano peggiorare la diffusione del coronavirus, cosa che ha indotto, anche strumentalmente, numerosi governatori a proclamare il coprifuoco.
Sarebbero stati 29, secondo fonti di stampa locale, i morti nel martedì nero vissuto ieri da Lagos, cuore economico e pulsante della Nigeria, citta’ dalla quale era partita la protesta pacifica, che aveva portato migliaia di giovani, in gran parte tra i 18 e i 24 anni, ad occupare interi quartieri e organizzare veri e propri happening, che avevano visto sfilare star nazionali del cinema, della musica e dello sport. Un modo per fare sentire la voce del popolo e chiedere al governo di dar corso, a 60 anni dall’ indipendenza dal Regno Unito, festeggiati il primo ottobre scorso, a quella svolta democratica che non c’è mai stata davvero e alla quale aspira la generazione scesa nelle strade, una generazione senza futuro, che non ha potuto beneficiare di una educazione gratuita e che si sente limitata nella propria libertà.
“Che cosa ci ha dato il nostro paese da quando siamo nate”, è lo slogan scandito in questi giorni dalle ragazze di Abujia, che è la capitale, sede politica di uno stato immenso, il più popoloso dell’Africa, il settimo nel mondo, con 200 963 599 di abitanti stimati nel 2019, 250 gruppi etnici di fedi differenti- di cui i big three sono Yoruba, Hausa-Fulani e Igbo- divisi tra loro da una mai placata conflittualità che sfociò nel 1967 nella catastrofica guerra del Biafra, che si combattè sull’onda del sogno di secessione Igbo di trasformare la regione sud orientale in una nazione autonoma. Un sogno che si infranse e si chiuse con un bilancio di oltre 3 milioni di morti di cui un milione e duecentomila in battaglia e quasi due milioni per fame e con un’intera ampia zona del paese devastata.
Oggi la Nigeria è una repubblica costituzionale di tipo federale che comprende 36 stati, che ha risorse naturali, dal petrolio, al carbone e stagno, all’ olio di palma, cocco, agrumi, mais, cassava, yam e canna da zucchero e un settore terziario sviluppato. Enormi potenzialità, che in questi ultimi anni avevano fatto sperare in un’impennata di crescita, nonostante il freno allo sviluppo sempre imposto dalla corruzione e dalla criminalità, fattori ai quali oggi si vanno ad aggiungere le fortissime ripercussioni della recessione mondiale in atto innescata dal coronavirus. Il settore agricolo del paese, come segnala il Nigerian Bureau of Statistics (NBS), alla cui modernizzazione e sviluppo sembrava puntare l’attuale leadership, non è decollato, pur registrando nel 2020 una crescita dell’1,8 per cento. Il prezzo del petrolio, da cui dipende l’83 per cento delle entrate finanziarie del paese e che alimenta il 70 per cento del bilancio dello stato, è crollato sui mercati internazionali con gravi conseguenze economiche per la Nigeria. L’inflazione ad agosto si è acuita salendo al 12, 8 per cento e sull’aumento dei prezzi sono andati anche a pesare l’introduzione dell’Iva e la diminuzione dell’import provocato dal Covid. Questo ha portato ad un ulteriore aggravarsi del tasso di disoccupazione arrivato al 27, 1 per cento e alla crescita del Misery Index del paese da 36,8 per cento nel 2019 all’attuale 72,8 per cento.
Uno scenario, ben diverso da quello che qualche anno fa collocava il gigante africano tra i paesi del mondo in corsa per diventare una vera superpotenza. Il presidente Muhammadu Buhari, a capo del Congresso di Tutti i Progressisti (APC), questo il nome del suo partito, rieletto per il secondo mandato alla guida del paese nelle consultazioni del febbraio del 2019, caratterizzate da una bassa affluenza alle urne, soprattutto tra gli elettori piu’ giovani, e da critiche e accuse di brogli da parte dell’opposizione, sta deludendo anche le aspettative delle classi benestanti e musulmane del paese che, nonostante il suo passato non proprio cristallino, avevano creduto in lui. Devoto all’islam moderato, ex generale, Buhari, nato nel 1942, è un uomo che con il suo entourage controlla i gangli vitali dell’apparato nigeriano dalla vigilia della guerra del Biafra. Salito per la prima volta al potere nel 1983 dopo un colpo di stato militare contro il presidente Sheu Shagar, Buhari è saldamente inserito tra gli alti ranghi dell’establishment dal 1966 quando aveva partecipato attivamente al golpe contro Aguyi Ironsi. Rovesciato da Ibrahim Badamasi Babangida nel 1985, era tornato poi da protagonista sulla scena politica nigeriana nel 2015, sfidando per la carica di presidente Goodluck Johnatan del Partito democratico del popolo, formazione politica alla guida del paese dal 1999. Senza contare le potenti relazioni intrecciate con i colossi internazionali del petrolio mentre era ministro dell’energia durante la presidenza di Arẹmu Ọbasanjọ Milliasa, due volte al potere dal 1976 al 1979 e dal 1999 al 2007.
Se il poeta Ken Saro Wiwa (Bori, 10 ottobre 1941 – Port Harcourt, 10 novembre 1995) ha sacrificato la vita per battersi contro lo sfruttamento della sua terra da parte delle multinazionali straniere che ne hanno devastato la bellezza e l’ecosistema, facendosi portavoce delle rivendicazioni delle popolazioni del Delta del Niger, fino ad essere condannato a morte dopo un processo sommario e impiccato insieme ad altri 8 attivisti, la classe dirigente nigeriana è scesa sempre a compromesso con chi nel paese ha fatto scempio, senza dare nulla in cambio.
I giovani nigeriani di oggi, anche quelli ai quali è stato precluso il diritto allo studio e al lavoro, questo non lo tollerano piu’. Fanno parte di una generazione, che si avvia a diventare maggioranza in un paese in forte crescita demografica, e la cui voce difficilmente d’ora in avanti potrà essere messa a tacere. E’ una generazione infatti che parla al mondo intero attraverso il web, come ha dimostrato in questi giorni, diffondendo le prove che inchiodano la sicurezza e il governo alle proprie responsabilità per le violenze durante le manifestazioni. E che non rimarrà inascoltata. Intanto in tutto il mondo in queste ore si è messa in moto una gigantesca macchina della solidarietà, con i nigeriani della diaspora in prima fila. Tra loro in Italia si sono levate in particolare le voci di due famose star del calcio Osimhen e Simy. I due giocatori dopo aver segnato, nell’ultima giornata di Serie A, sono corsi verso le telecamere mostrando il messaggio, scritto sulle loro magliette, “end police brutality in Nigeria”. Un gesto che l’attaccante del Napoli ha arricchito twittando la bandiera insanguinata del suo paese. Iniziative che stanno contribuendo fortemente a elevare il livello dell’attenzione politica e diplomatica sul paese.
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