di Guido Talarico
Finirà così: rimpastino se va male, rimpastone se va bene. Nel primo caso Matteo Renzi andrebbe agli esteri, Ettore Rosato al Mise come viceministro e Maria Elena Boschi alla Presidenza dei Consiglio come Sottosegretario, mentre Luigi di Maio traslocherebbe al Ministero degli Interni al posto della tecnica Lamorgese, oppure lo stesso Di Maio e Zingaretti diventerebbero vicepremier. Se invece va bene il giro di poltrone potrebbe essere più possente e finire con Mario Draghi alla Presidenza del Consiglio, con l’obiettivo di gestire bene la fase di lancio del Recovery Fund e poi finire al Quirinale. Sia chiaro: siamo nell’incerto mondo delle indiscrezioni. Autorevoli, molteplici, ma pur sempre “rumors”, cioè quelle informazioni che stanno due gradini sotto le notizie.
Se però a queste voci di palazzo si aggiunge l’analisi illuminata della satira allora si arriva ancora più vicini alla verità. Federico Palmaroli, acuto inventore de “Le frasi di Osho” ha colto un aspetto importante di questa fase politica che è la psicologia del potere di Renzi: “Io non volevo solo partecipare ai governi. Io volevo avere il potere di farli fallire”, dice un Matteo vestito dal Gep Gambardella di sorrentiniana concezione. Quello di vita e di morte è un potere assoluto che Renzi in questa fase politica sa usare come pochi altri (citofonare Letta e Salvini per conferma). Una capacità che ha un piccolo segreto. L’ex sindaco di Firenze riesce quasi sempre a far coincidere gli interessi del paese con i suoi. La crisi politica di questi giorni nasce infatti da una realtà innegabile: su come gestire i 209 miliardi del Recovery Fund e sulla questione dei servizi segreti il Premier Giuseppe Conte ha dato l’impressione di volersi comportare da “uomo solo al comando”. Come se nel 2021 i rischi per lui fossero alle spalle e potesse dunque prendersi qualche licenza in più, per poi magari andare personalmente all’incasso in vista delle prossime elezioni. Un errore non troppo dissimile da quello commesso da Salvini e forse dallo stesso Monti. Un atteggiamento da solista il suo che non piace a Goffredo Bettini e Nicola Zingaretti e, in fondo, neppure a Luigi Di Maio e Vito Crimi.
A questo fastidio verso la pretesa emancipazione di Conte va poi aggiunto un altro fondamentale elemento: questo parlamento non andrà mai ad elezioni anticipate. E le ragioni sono evidenti: Una cospicua fetta degli attuali deputati e senatori (si calcola sia una cifra oscillante tra il 30 e il 40 % del totale) non verrà rieletta, quindi questi signori sosterrebbero chiunque prima di andare allo scioglimento. Renzi ha dunque fatto un calcolo politico razionale: sul Recovery Fund il paese si gioca il suo futuro, quindi il governo non può sbagliare, anzi deve mettere in campo i migliori. Ragioni incontestabili che gli consentono di fare la voce grossa. Del resto questo lo ha detto chiaro e tondo più volte anche il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, il quale, per indole e per scelta, è tra i più riservati capi di stato che la Repubblica abbia mai avuto ma allo stesso tempo tra i più vigili. Mattarella vede tutti e parla con tutti avendo chiaro un obiettivo che è l’interesse superiore del paese. Vuole lasciare il suo ufficio con un’Italia uscita finalmente dal Covid e ben avviata sulla strada della ripresa economica. Sa che il tempo è poco, sa che non si può sbagliare e per questo non è disposto ad avallare alcun gioco di potere a meno che non sia appunto nell’interesse dell’Italia.
E qui entra in gioco l’ipotesi due, quella del rimpastone che porterebbe Mario Draghi prima a Palazzo Chigi e poi sul Colle. E’ un’ipotesi non semplice perché prevedrebbe il sacrificio di Conte e dunque necessiterebbe del consenso di larga parte del Movimento 5 Stelle, ma non è da escludere proprio per le ragioni di cui dicevamo: il momento è drammatico, il paese ha bisogno di efficienza, di qualità e dunque di stringersi intorno ai suoi uomini migliori per battere bene la pandemia e avviare una fase di rilancio forte e duratura. E questo obiettivo coincide, guarda caso, con quello dichiarato da Renzi, che poi piace anche al Pd e che alla fine potrebbe essere condiviso anche da Grillo e Di Maio, i quali devono uscire da questa esperienza di governo con qualche risultato importante se non vogliono essere drasticamente ridimensionati o dipendere da Conte. Senza contare che ad un progetto Draghi potrebbe partecipare anche Berlusconi, che da tempo ormai ama incarnare il ruolo del padre nobile, e con lui le varie anime centriste.
Ho riletto in questi giorni festivi un saggio di Roger Abravanel e Luca D’Agnese che si intitola “Italia, cresci o esci” edito da Garzanti. E’ del 2012 ma sembra scritto ieri. “L’economia italiana – spiegano i due autori – a differenza delle altre economie occidentali, ha smesso di crescere molto prima della grande crisi: è da 10 anni che l’Italia cresce meno degli altri paesi. Quando gli altri crescono, noi restiamo quasi fermi: tra il 2000 e il 2007 il pil del Regno Unito e Spagna è cresciuto di circa il 30%, gli usa del 23, la Francia del 18 e la Germania del 14, mentre la nostra economia è cresciuta solo del 13%. Quando gli altri arretrano, noi retrocediamo ancora di più: tra il 2008 e il 2010 il Pil italiano si è contratto del 5%, quello della Gran Bretagna e Spagna del 3%, quello di Francia, Germania e Usa dell’1%. Alla fine di un decennio la nostra economia è cresciuta meno di tutti – 8% – più o meno la metà di Francia e Germania, 1/3 di Gran Bretagna, Usa e Spagna”. Sono passati otto anni da allora e le cose oggi sembrano andare molto peggio.
Il debito è aumentato, a ottobre era di 2.587 miliardi, il suo massimo storico pari al 158% del Pil. Parametri da azienda decotta. ll covid ha aggravato il tutto, colpendo duramente il cuore della nostra economia (turismo, moda, cultura, le Pmi). No, non è più tempo di giochetti e di piccoli calcoli elettorali. Oggi la ripresa economica è la priorità assoluta, la madre di tutte le battaglie. Ancora le parole di Abravanel e D’Agnese sempre del 2012: “In questi mesi abbiamo capito, tutti noi italiani, che la situazione del paese è grave e dobbiamo tutti impegnarci per uscire da questa crisi. Ancora fatichiamo a capire, però, che per risolvere “il caso Italia” non bastano i tagli e le imposte. Per salvare noi stessi e assicurare un futuro ai nostri figli, la regola deve essere la crescita: senza sviluppo sarà impossibile riconquistare la fiducia dei mercati internazionali, ridurre il debito pubblico è la pressione fiscale, creare nuovi posti di lavoro punto perché questo accade dobbiamo liberarci dei vecchi pregiudizi e rendite di posizione punto è necessario superare il tradizionale immobilismo della società italiana, per abbracciare la cultura della crescita. Serve una rivoluzione, fondata su meritocrazia e rispetto delle regole: non solo perché è moralmente giusto, ma soprattutto perché è più conveniente per tutti”.
Avremmo dovuto scolpire queste parole nella nostra Costituzione e invece abbiamo ancora sprecato tempo ed occasioni. Ed ora, che ci troviamo in mezzo ad una emergenza planetaria, non dovremmo fare altro che dare il meglio di noi. Cogliere questa crisi per cambiare, per innovare i nostri apparati, per rimediare alle falle e finalmente crescere. Il grande problema rimane la politica perché spesso ha un interesse diverso da quello dello Stato. E’ vittima del calcolo elettorale, della contingenza, quindi fa scelte clientelari (vedi la partita delle nomine), di basso cabotaggio, spesso con un orizzonte temporale limitatissimo. E qui entra in gioco l’intuizione di Renzi. Alzare il tiro, accodare il proprio interesse a quello generale. Battersi per una grande battaglia: la salvezza dell’Italia. E’ una partita difficile. Gli interessi di parte potrebbero far nascere l’ennesimo topolino. Oppure no. Oppure per una volta potrebbe essere messa in campo una coalizione in grado di fare quale che si deve: innovazione orientata alla crescita. Poi, passato il peggio, si voterà. Draghi, da quanto apprendiamo, ha dato la sua disponibilità, ma solo nel caso in cui si dia vita ad un progetto di respiro, ampiamente condiviso e con una solida maggioranza parlamentare. L’arbitro è Mattarella ma la palla in questo momento è in mano a Di Maio e Grillo. Sono loro che dovranno scegliere se affidare ancora il proprio futuro e quello del paese ad un tecnico di nome Conte o cambiare e prendere un tecnico di nome Draghi.
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