di Velia Iacovino
Continuare a soffiare sul fuoco acceso tra Russia e Ucraina in questo delicato momento di crisi economica globale provocata dalla pandemia sarebbe un grave e fatale errore per l’attuale amministrazione americana. Se la crisi in atto tra Mosca e Kiev, cominciata dalla caduta dell’Urss e culminata nel 2014 con l’annessione da parte del Cremlino della Crimea e l’autoproclamazione dell’indipendenza di Dontesk e Lugansk, le repubbliche filorusse del Donbas, sfociasse in uno intervento militare o in nuove sanzioni, l’Alleanza Atlantica rischierebbe di frantumarsi.
L’errore di Washington
Una guerra, come quella che sembrano immaginare in queste ore gli strateghi del Pentagono, che hanno messo in stato di allerta le basi statunitensi nel Mediterraneo e in Medioriente, all’interno della Nato di fatto non la vuole nessuno, eccetto Washington. Non la vogliono le grandi potenze europee, né la vuole, per ragioni diverse, la Turchia, legata alla Nato e anche all’Ucraina, ma interessata all’appoggio di Mosca per accrescere il suo ruolo di playmaker in Medioriente. Scongiurare lo scontro militare e interrompere il braccio di ferro tra Joe Biden e Vladimir Putin, attraverso negoziati diplomatici, sembra essere al momento per tutti un imperativo categorico assoluto. Anche per la Cina, alleato di ferro della Russia, che nelle prossime settimane sarà sotto i riflettori del mondo con le Olimpiadi invernali.
E se fuori dal coro Ue, il Regno Unito ha già fatto sapere di ritenere “improbabile” l’ipotesi di inviare le proprie truppe in Ucraina, all’interno dell’Unione Europea, che per ora si è limitata con cautela a ribadire la propria opposizione a un eventuale attacco russo oltre i confini ucraini, dove Mosca ha schierato 10 mila uomini, la voce che si è espressa con piu’ chiarezza è quella della Croazia che ha affermato che in caso di conflitto richiamerà a casa il proprio contingente Nato di stanza in Europa Orientale. Una voce in contrasto con il disappunto serpeggiante in seno agli altri paesi dell’est europei che vorrebbero che la Ue e le grandi potenze del Vecchio Continente facenti parte del Patto Atlantico, si schierassero con decisione e senza esitazioni dalla parte di Kiev. Ma così non è.
Fortissima è la frenata impressa dalla Germania alle posizioni europee della cordata filo ucraina, capeggiata dalla Polonia. Berlino, pur avvertendo Mosca degli eventuali alti costi di una sua violazione all’integrità territoriale dell’Ucraina, ha escluso categoricamente, attraverso il suo ministro per la Difesa Christine Lambrecht, l’invio di armamenti a Kiev, impegnandosi in aiuti umanitari e bloccando anche il proprio export bellico all’’Estonia, nel timore che Tallin possa rifornire con armi tedesche gli arsenali ucraini.
Su posizioni analoghe la Francia, tra l’altro all’inizio del suo semestre europeo. Parigi ha deciso di puntare a negoziati separati (al di fuori della Nato e senza la partecipazione statunitense) con Mosca e per disinnescare la crisi ha rivitalizzato con un vertice che si è tenuto il 26 gennaio il Quartetto Normandia (inattivo dal 2019), il gruppo costituito da Parigi, Berlino, Mosca e Kiev, nato il 6 giugno 2014 dopo la l’invasione russa della Crimea e la proclamazione dell’indipendenza di Dontesk e Lugansk dall’Ucraina.
Quanto all’Italia, paese chiave nello scacchiere Nato, se la politica, impegnata nella battaglie per il Quirinale, mantiene per ora ufficialmente un bassissimo profilo sulla crisi, a muoversi sono le grandi aziende, che il 26 gennaio hanno tenuto un incontro in videoconferenza organizzato dalla Camera di commercio italo-russa, presieduta da Vincenzo Trani, al quale hanno partecipato otto ministri del governo di Mosca, il capo della compagnia petrolifera Rosneft Igor Sechin e l’amministratore delegato del Russian Direct Investment Fund, il fondo sovrano della Federazione Russa, Kirill Dmitriev, Putin e numerosi rappresentanti dell’imprenditoria italiana. Un incontro, in programma dallo scorso ottobre, che non è stato certo rinviato in considerazione del delicato momento e dal quale per il nostro paese sarebbero emerse dichiarazioni rassicuranti da parte del presidente russo sulle future relazioni economiche. Una terza via, quella inaugurata dall’Italia, che possiamo definire della “diplomazia delle imprese”, che il governo non ha ostacolato, tutt’altro, e che ha spiazzato Stati Uniti e partner europei. Ma la partita in gioco per il nostro paese è alta. In 11 mesi nel 2021 lo scambio bilaterale commerciale con la Russia è cresciuto del 53,8%, toccando i 27,5 miliardi di dollari, come ha ricordato lo stesso Putin durante il meeting, sottolineando anche che la collaborazione con Gazprom va avanti sulla base di contratti a lungo termine, cosa che oggi consente all’Italia di acquistare gas a prezzi molto inferiori a quelli del mercato.
E la questione energetica gioca un ruolo, di cui gli Stati Uniti sembrano non tenere in grande conto, assolutamente prioritario invece nella crisi Ucraina. Attraverso il paese passa infatti oltre il 37% del gas naturale diretto dalla Russia verso Occidente. Una percentuale che negli ultimi anni certamente si è ridotta, grazie alla realizzazione di nuovi gasdotti che hanno permesso l’apertura di rotte alternative, ma che comunque per il momento non è ancora sufficiente per poter indurre l’Europa e in particolare l’Italia, che dipende da Mosca per il 40% delle sue importazioni di gas, a rinunciare alle forniture russe. Grande è, dunque, l’incertezza che si profila all’orizzonte in caso di guerra e quindi di chiusura dei rubinetti energetici verso il Vecchio Continente, nonostante gli sforzi americani, che finora non hanno prodotto nulla, di trovare per l’Europa in vista di una possibile imminente emergenza nuove fonti alternative, attraverso il Qatar e altri grandi esportatori di gas.
La posizione Russa
Ma cosa sta cercando di ottenere la Russia dall’Occidente con questa ultima mossa contro l’Ucraina? Quello che vuole il Cremlino, forte della leva potente che ha in Europa appunto con il gas, è di estendere la sua influenza strategica, come dimostrano gli interventi militari messi in atto in questi anni anche in altre zone dell’area, Kazakistan, Bielorussia e Armenia, in quest’ultimo paese con funzione di peacekeeping. E contemporaneamente di ridurre l’espansione della Nato che punta ad allargarsi verso Ucraina e Georgia, dove Mosca non può contare piu’ su governi alleati. Negli ultimi anni Kiev ha ricevuto il supporto militare del fronte occidentale (2,7 miliardi di dollari gli aiuti ricevuti dagli Usa dal 2014), riaccendendo le preoccupazioni russe di fronte a un suo possibile e paventato ingresso nel Patto Atlantico.
Una minaccia alla propria sicurezza secondo la Russia che vorrebbe dalla Nato garanzie precise sul proprio ulteriore allargamento e sul ritiro delle proprie forze dai paesi Baltici e Balcanici, entrati nell’Alleanza dopo il 1997. Richieste che ovviamente per Washington sono inaccettabili. Ma non è solo questo. In ballo c’è dell’altro. Con l’assedio posto all’Ucraina Mosca punta anche a ottenere l’approvazione dell’altro suo gasdotto, il Nord Stream 2, che arriverebbe in Germania attraverso il Baltico e che si inserisce nel progetto russo di diversificare le rotte energetiche, aggirando Kiev. Mostrando i muscoli agli Stati Uniti, Mosca mira inoltra a rafforzare il suo potere contrattuale con la Cina, anch’essa fortemente dipendente da un punto di vista energetico dalla Russia, e ad accrescere la sua influenza in Africa, accanto a Pechino, e ancora in Libia, e Medio Oriente, stringendo i ranghi al fianco di Iran e Siria.
L’Ucraina è una pedina troppo importante e farebbe male Washington a cadere nella trappola di Mosca, o a strumentalizzarla, per lo scarso seguito che avrebbe, come dimostra l’attuale impasse dei suoi grandi alleati, nel caso in cui la situazione precipitasse. Le ricadute sono inimmaginabili e sarebbero gravissime, tanto piu’ in uno scenario come quello attuale fortemente segnato dall’emergenza Covid. Non è insomma la stessa cosa che intervenire in Iraq o in Afghanistan, sventolando la bandiera della guerra al terrorismo. Né i tempi sono quelli giusti per l’inizio di una nuova guerra fredda.